Eugen Herrigel e il Maestro Awa – Le memorie del professor Komachiya (Prima Parte)

Premessa

La storia del documento che presentiamo in traduzione, tratto dal libro di Michel Martin Kyudo: un tir, une vie (Amphora, Parigi, 1990, p. 183), è la seguente: nel 1936 Eugen Herrigel tenne a Berlino una conferenza dal titolo “Die Ritterliche Kunst des Bogenschiessens” (L’Arte cavalleresca del tiro con l’arco), che costituisce il nucleo di quello che poi sarà il famoso libro Lo Zen e il tiro con l’arco. Il testo della conferenza – che Herrigel pubblicò nel “Zeitshrift für Japanologie” – fu subito tradotto in giapponese, e nel 1940 fu integrato da un’appendice, che è il presente resoconto, nel quale colui che fu interprete tra Eugen Herrigel e Kenzo Awa sensei, il professor Sozo Komachiya, rievoca da un punto di vista privilegiato e con notevole chiarezza il rapporto maestro-discepolo che intercorse tra i due, arricchendolo di particolari ed episodi non presenti nel libro Lo Zen e il tiro con l’arco.

Rileggendo le memorie di quei fatti lontani, emerge con forza la provvidenzialità di quell’incontro: un filosofo tedesco dotato dell’attitudine corretta per cogliere l’essenza di un’Arte tradizionale così profonda, e un maestro giapponese che, dopo aver colto i frutti più preziosi che il Kyudo sa donare ai suoi adepti, avverte l’impulso, per certi versi misterioso, a promuovere il Kyudo stesso fuori dagli ambiti nazionali nipponici, facendone così un bene morale e spirituale a cui chiunque sia sinceramente disposto può accostarsi.

Il risultato fu clamoroso: Herrigel, dopo un intenso e in un certo senso unico tirocinio, comprese l’essenza e il valore del Kyudo, e il suo libro Lo Zen e il tiro con l’arco fece conoscere al mondo una Sapienza tradizionale che attraverso difficoltà, sofferenze, impasse ed improvvise intuizioni condusse un uomo a cogliere la verità della sua natura autentica: tutto ciò grazie a un arco, una freccia, un bersaglio e, soprattutto, una comunicazione “da cuore a cuore” tra maestro e allievo, che nessuna critica pedante e sofistica – come quelle sollevate in tempi recenti nei confronti di Herrigel – potrà mai intaccare.

Nulla sarebbe stato più come prima: grazie all’opera di Kenzo Awa sensei e di Eugen Herrigel sarebbe stato difficile, se non impossibile, svuotare di significato l’essenza del Kyudo e smantellarne le intrinseche potenzialità trasformative, come, purtroppo, è accaduto per buona parte delle discipline del Budo in epoca moderna.

Un ulteriore corollario di questa vicenda è che essa dimostra l’universalità della dottrina del Kyudo, che offre a chiunque si voglia avvicinare ad essa con la giusta attitudine la possibilità di un’esperienza effettiva delle vibrazioni dello spirito. Come apparirà chiaro più avanti, Herrigel non solo seppe comprendere lo spirito di quest’Arte, ma fu capace di intuirne le analogie con certi aspetti della Tradizione occidentale, che per ciò stesso acquistavano nuova vita e nuovo slancio.

De hoc satis, fermiamoci qui. Le parole di Komachiya scorreranno con il sapore di un incanto, di un qualcosa di sospeso senza tempo né spazio, forse un sogno. L’Ikebana, il tiro di Confucio, l’enigma della respirazione, i disegni alla lavagna, Sant’Uberto e il cervo sacro… Sullo sfondo, a dare senso al tutto, lo spirito di un Maestro che vedeva lontano, assai più lontano di molti…

Per comodità di lettura il documento è stato diviso in due parti; la seconda sarà pubblicata il 18 gennaio.

Traduzione a cura dell’Accademia Romana Placido Procesi. Copyright © 2009.

Ricordo, fu all’incirca nella primavera del 1926: Herrigel venne a trovarmi per dire che avrebbe voluto imparare il kyudo. Mi chiese di presentargli il Maestro AWA, il famoso campione di tiro con l’arco. Gli chiesi il motivo di questa sorprendente decisione, poiché ero stupito dal fatto che avesse avuto questa idea. Anche per un giapponese, infatti, il kyudo è un’arte difficile. Mi rispose dicendo che vivendo in Giappone ormai da tre anni, aveva capito quante cose avrebbe potuto imparare attraverso la cultura giapponese. A suo avviso, il Buddhismo, e in particolare lo Zen, esercitava un grande influsso sul pensiero giapponese, e pensava che il sentiero più breve per iniziarsi al Buddhismo sarebbe consistito nel diventare un arciere.

“Sono giunto in Giappone con mia moglie, e viviamo quotidianamente con i giapponesi. Ritengo che sia molto importante per me imparare a conoscere la cultura giapponese nel modo più esatto e completo possibile. Si incontrano spesso degli stranieri che, pur essendo vissuti da tempo in Giappone, non sono mai riusciti a comprendere lo stile di vita dei giapponesi, ed è parso loro assai arduo fare astrazione dai costumi del loro paese natale. ‘A Roma, si deve vivere come i Romani’. Quando non si segue questo metodo la vita diventa insipida, meschina ed impoverita. Per tale ragione ho lasciato che mia moglie prendesse delle lezioni di pittura e di decorazione floreale [l’Ikebana, N.d.T.]. E quando il professore di arte floreale è venuto a trovarci, anch’io ascolto quanto ha da dire… E ora vogliamo imparare insieme il kyudo”.

Furono questi i motivi che mi illustrò, e volgendosi verso di me aggiunse: “Quando viene il professore di arte floreale, il professor Chiba, mio amico, fa da interprete, e siamo grati del fatto che si prenda questo disturbo. Sarebbe così gentile da farci da interprete con il professore di kyudo?”.

Queste parole mi hanno fatto presumere che il punto di partenza per questa improvvisa passione per il tiro con l’arco sia provenuta dal maestro di arte floreale, il signor Takeda, poiché questi era amico del signor Awa; e per spiegare l’arte floreale si serviva spesso di espressioni mutuate dal kyudo. Le due arti, in effetti, hanno il medesimo fondamento spirituale.

Kenzo Awa sensei

"Sono assolutamente felice di insegnare quest’arte a uno straniero così nobile...".

Andai subito a trovare il signor Awa nel luogo dove si esercitava, presso Itsutsubashi, a Hihashi-Nibancho, e lo misi al corrente del desiderio del signor Herrigel. Ora, senza indugi e giri di parole egli rifiutò, poiché, disse, aveva già introdotto molti stranieri al kyudo senza ottenerne alcun risultato. “Sono desolato, ma devo rispondere ‘no’. Gli stranieri considerano il kyudo come uno sport o come una ginnastica, e non ne comprendono lo spirito. Ho provato lungamente a spiegarlo, ma invano. Gli stranieri, beninteso, potrebbero comprenderne il vero spirito, se fossero pazienti. Ma non riescono ad aspettare che arrivi il momento giusto, si stancano troppo presto e rinunciano al loro progetto. Ecco il motivo per cui non intendo fare una nuova esperienza che si rivelerebbe anch’essa vana”.

Ero completamente d’accordo con il signor Awa, e tuttavia provai a spiegargli in dettaglio che il signor Herrigel non aveva alcuna intenzione di fare dello sport o della ginnastica, ma desiderava sinceramente essere introdotto allo spirito giapponese. Il Maestro Awa si prese un momento per riflettere, poi rispose: “Va bene, acconsento al suo desiderio. Ma lei farà da interprete, e garantirà per il signor Herrigel”.

Naturalmente ho accettato questa proposta, in primo luogo perché il mio amico Herrigel me l’aveva espressamente chiesto, e poi perché, secondo l’uso di quest’arte, si doveva accettare la volontà del Maestro. Poi chiesi al signor Awa quale sarebbe stato l’importo del suo onorario, pur sapendo che tale questione secondo il costume giapponese poteva sembrare inopportuna. Ma il signor Herrigel – che, essendo europeo, pensava all’europea – mi aveva pregato di farlo. Il Maestro rispose subito: “Non voglio nulla, dato che sono assolutamente felice di insegnare quest’arte a uno straniero così nobile, anch’egli filosofo, e sono anche convinto che egli comprenderà il vero spirito di quest’arte. In ogni caso preferirei rifiutarmi di insegnare piuttosto che accettare un onorario”.

Riferii testualmente queste parole al signor Herrigel, che mi sembrò un po’ preoccupato. Provai allora a spiegargli che su questo punto noi giapponesi abbiamo una sensibilità molto particolare, e che non doveva insistere.

Dopo di ciò ci recammo una volta a settimana in tre, il signor Herrigel, sua moglie ed io, al dojo del signor Awa, portando ciascuno un arco sulla spalla.

Ciò potrebbe sembrare una digressione, ma vorrei raccontare ancora qualcosa riguardante il Maestro Awa.

Eravamo probabilmente nel 43° anno dell’epoca Meiji, ovvero nel 1910 – non ricordo esattamente – quando cominciai ad esercitarmi nel tiro con il Maestro Awa, poco tempo dopo la mia entrata nel secondo anno di liceo. A quell’epoca egli insegnava il kyudo in quella scuola, ma la sua reputazione non era ancora quella che avrebbe raggiunto in seguito. Aveva un piccolo terreno a Danichi-Yokocho. L’aveva preso in affitto da un ricco proprietario, e lo utilizzava per esercitarsi. Malgrado ciò, veniva sempre al dojo della nostra scuola. Aveva circa trent’anni, era un uomo giovane e vivace. Utilizzava archi molti forti. In certe occasioni portava dei grandi archi potenti, simili a quelli che si depongono nei templi Shinto come offerta per i sacrifici. All’epoca insegnava prima la tecnica che lo spirito del tiro con l’arco, e si mostrava assai severo per quanto riguardava la forma. Dava inoltre grande importanza al fatto di colpire il bersaglio: amava fare scommesse con noi, quando tiravamo ai bersagli. Più tardi, quando uscii dal liceo ed incontrai nuovamente il Maestro Awa, nel 1924, ero stato da poco nominato professore all’Università Tohoku. Nel frattempo il kyudo era divenuto assai popolare, e il Maestro Awa aveva molti allievi. Ma il suo modo di tirare era completamente cambiato: era divenuto più concentrato e spiritualmente maturo. Il Maestro non insegnava più la tecnica, ma soprattutto lo spirito del kyudo, e dava molta meno importanza al fatto che le frecce raggiungessero o no il bersaglio. “In ogni tiro”, diceva, “si deve essere presenti con tutto il proprio spirito”. Ed approfondiva il suo studio del giorno secondo questa direzione. In questo modo i suoi metodi pedagogici si trasformavano continuamente.

La concentrazione di Awa sensei

"Il suo modo di tirare era completamente cambiato: era divenuto più concentrato e spiritualmente maturo...".

Nel febbraio 1936 il Maestro Awa parlò alla radio di Sapporo sul kyudo. Se la mia memoria è buona, si può riassumere pressappoco il suo discorso così: il famoso arciere Yangyuchi aveva colpito le foglie di un salice piangente a 100 passi di distanza, e ciò per cento volte consecutive. E lo stesso Confucio aveva tirato 100 volte in modo perfetto, pur mancando a volte il bersaglio. Ciò significava che egli aveva meglio compreso lo spirito autentico del tiro con l’arco. È così che questo spirito aveva riempito l’universo intero, e che gli astanti erano rimasti affascinati ed emozionati dalla sua perfezione divina. “Lo spirito del kyudo”, aggiungeva il relatore, “non consiste nell’arte di colpire il bersaglio come Yangyuchi, ma nella perfezione del tiro di Confucio.

Tirare è un mezzo per perfezionare il proprio carattere. Pertanto, è possibile esercitarsi debitamente nel kyudo per perfezionare la propria personalità. E in ogni tiro, tutta la personalità dev’essere unita all’universo. Gli antichi saggi, i santi”, proseguì il Maestro Awa, “cercavano nel tiro con l’arco una virtù di presa di coscienza di se stessi, e credevano di perfezionare in tal modo il loro valore umano. Il tiro dev’essere così anche oggi. In ogni tiro occorre impegnare tutta la propria vita, in esso occorre donarsi interamente. Tra la vita reale e il tiro con l’arco non deve esservi alcuna differenza, e per entrambi non deve esistere che una sola verità. In ogni tiro si deve rinnovare la propria esistenza e reintegrarla nell’universo. Solo unendo il proprio essere all’universo, infatti, l’essere diventa reale. Per tale motivo l’obiettivo dell’arciere è quello di elevare la propria personalità e di addestrare lo spirito dirigendolo verso se stesso. È questa, tra l’altro, la ragione per cui occorre mettere l’accento non sulla tecnica, ma sullo spirito. La vera vocazione del kyudo è quindi quella di acquisire un maggiore influsso sul proprio spirito e di diventare più cavallereschi e insieme più umani, producendo in tal modo un numero maggiore di veri saggi e di santi”. A quel punto citò il filosofo Yangtzu: “Solo quando con l’arco si suscita il proprio spirito, con la freccia si concentra il proprio spirito, si considera il bersaglio come la verità e si tira con venerazione è possibile colpire con sicurezza il bersaglio”. E aggiunse ancora: “Quando si vuole imparare il tiro con l’arco, occorre allenare lo spirito in modo che il tiro s’identifichi con esso, e occorre sforzarsi di esercitare l’influsso su chi ci circonda grazie allo spirito del tiro con l’arco, così da essere in grado di dirigere i propri simili”.

Con queste parole terminò il suo discorso alla radio.

Ciò che segue riassume, secondo il Maestro Awa, i quattro principi del kyudo:

1. Il kyudo dev’essere un mezzo che mediante movimenti e modificazioni impegna e perfeziona tutta la personalità, corpo e spirito, in modo da attingere l’autentico stato animico che libera il corpo e lo spirito.

2. Mediante la pratica morale del kyudo, tutto il mondo si riunirà in un’amicizia spirituale in cui consiste lo spirito giapponese, il quale deriva dalla virtù dei Samurai; tale pratica lo farà avanzare e mostrerà la sua grandezza nel mondo.

3. Si deve arrivare a comprendere che esercitandosi nel kyudo si diventa più perfetti mediante l’approfondimento della conoscenza e dell’esperienza, e si deve unicamente tendere verso tale approfondimento senza mai distrarsi.

4. Colui che tira con l’arco è un’incarnazione del sapere divino, non parla molto e non fa alcuno sforzo inutile. Esercitandosi in maniera corretta, il Tanden (vale a dire il centro) deve coltivare la forza divina che porta in sé.

[Nota di Michel Martin: Secondo la concezione buddhista, il Tanden è il centro spirituale dell’uomo, situato al disotto dell’ombelico (su alcune rappresentazioni del Buddha, è spesso indicato da un loto). Da tale punto parte tutta la forza spirituale e corporea, e l’esercizio di base consiste in una concentrazione sulla tensione corretta dei muscoli dell’addome.]

Ad ogni tiro dobbiamo applicare il nera wanai sha.

Sulla base di questo principio, possiamo forse farci un’idea approssimativa della concezione del kyudo propria del Maestro verso la fine della sua vita.

Ogni volta che il signor Herrigel e la moglie venivano al dojo del Maestro Awa, quest’ultimo faceva in modo che nessun altro fosse presente, e solo in rare occasioni autorizzava alcuni allievi preferiti ad assistere. Il Maestro Awa si comportava così affinché il signor Herrigel, senza distrazione o imbarazzo, potesse concentrarsi sul tiro. E affinché l’allenamento della signora Herrigel fosse più piacevole, il Maestro faceva in modo che anche sua figlia partecipasse. Per rendere più chiara la forma femminile del kyudo, la moglie del Maestro aiutava la signora Herrigel guidandone i movimenti. In tal modo apparve chiaro che il Maestro Awa aveva una profonda comprensione di quest’arte.

Il primo giorno il Maestro Awa eseguì un tiro cerimoniale utilizzando un rotolo di paglia [il makiwara, N.d.T.], inaugurando così gli esercizi del suo nuovo allievo (il metodo era naturalmente lo stesso per gli allievi giapponesi). Il Maestro gli insegnò a porsi dinanzi a questo tipo di bersaglio, a posizionare correttamente i piedi e a tenere l’arco secondo le regole. Gli insegnò poi a regolare la respirazione, a respirare profondamente e a tendere i muscoli dell’addome. Dopo l’esercizio su questi preliminari, il Maestro lasciò che l’allievo tirasse per la prima volta al makiwara. Lo stile del signor Herrigel, naturalmente, era inizialmente assai maldestro, come accade anche ai principianti giapponesi.

Dopo alcuni tiri, l’allenamento del primo giorno terminò ed ogni settimana tale pratica fu reiterata. Il Maestro dava un’importanza particolare alla regolarità della respirazione. Per il signor Herrigel era una cosa molto difficile da concepire. Diceva sempre: “La respirazione passa per il polmone. È fisicamente impossibile comprimere l’aria del polmone nell’addome”. Ma il Maestro ripeteva spesso che, per capire lo spirito dei Samurai giapponesi, questo esercizio era fondamentale. “Lei deve fare questo esercizio senza argomentazioni logiche”. Dicendo ciò afferrava l’arco di Herrigel, guidava il suo braccio per l’esercizio e si allontanava. Herrigel stava ora in piedi, con l’arco teso, e attendeva l’ordine per tirare. “Non ancora”, diceva il Maestro, e Herrigel cominciava a tremare per lo sforzo che doveva fare. “Non ancora”, ripeteva il Maestro colpendogli il ventre con il palmo della mano: “Uno sforzo! Tenda bene i muscoli dell’addome!” gridava, e, quando l’arco era interamente teso: “Espiri completamente, ma non inspiri e non tiri ancora”. Di tanto in tanto il Maestro si avvicinava e metteva l’orecchio contro il naso del suo allievo per verificare che questi non inspirasse, colpiva il suo ventre e ripeteva: “Non ancora, non ancora! Pazienza. Tenga duro!”.

Sembra che questo esercizio sia stato molto arduo per il signor Herrigel. Si lamentava, dicendo di sentirsi sfinito e completamente privo di forze, incapace di tenere il suo arco. A queste lamentele il Maestro rispondeva: “Quando lei parla così, dimostra di voler agire, di volersi servire della sua forza. Ora, nel kyudo autentico ciò è vietato. Per tirare bene, deve dimenticare tutta la sua forza fisica. Deve tirare solo con la forza del suo spirito”. Qui il pensiero del signor Herrigel naufragava. Era un punto pericoloso: non si può più progredire, e quando non si avanza più si torna indietro. Herrigel riteneva che l’arco fosse un mezzo con il quale la freccia, in virtù della sua elasticità, raggiungeva il bersaglio. Per riuscirci, occorre utilizzare la forza di tutto il proprio corpo. “Quando si abbandona la propria forza”, diceva, “si diviene fiacchi, paralizzati. Non riesco a capire in altro modo”. Questo problema lo preoccupò a lungo. Quando il Maestro gli ordinava di rinunciare alla sua forza, io traducevo con … [In bianco nel manoscritto] e ci siamo diverse volte rammaricati amaramente, dicendoci l’un l’altro: … [Idem].

Poco dopo l’inizio della sua pratica, il signor Herrigel ordinò un makiwara, e si esercitò nel suo ufficio diverse volte al giorno. Si recava dal Maestro Awa solo una volta a settimana, e malgrado ciò, finalmente, faceva grandi progressi. Dopo circa un anno aveva praticamente acquisito la padronanza dell’esercizio del Tanden, e sapeva tirare senza fare appello alla forza fisica; e all’incirca nello stesso periodo riuscì anche ad eseguire l’hanare senza rilasciare volontariamente, il che era già molto.

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