Eugen Herrigel e il Maestro Awa – Le memorie del professor Komachiya (Seconda Parte)

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[…] Nell’intento di rivolgersi direttamente al signor Herrigel, il Maestro Awa imparò qualche parola in tedesco. Quando il signor Herrigel tirava male egli gridava subito: “Non bene”, e si mostrava di umore assai cattivo. Ma quando il signor Herrigel, in alcune occasioni, effettuava un buon tiro, egli gridava: “È grandioso, notevole, brillante!”. Forse perché la prima di queste parole gli sembrava più facile da pronunziare, l’adottò e ricordo che pronunciandola stringeva la mano del signor Herrigel. Quando era particolarmente contento di lui, il Maestro, che era assai robusto, serrava nelle sue braccia l’allievo, grande come lui, e lo sollevava con entusiasmo per fargli capire quanto fosse soddisfatto. In queste circostanze, se Herrigel non era convinto di aver tirato proprio bene, mi chiedeva: “Era davvero buono il tiro?”. E quasi sempre potevo confermare le parole del Maestro.

[Nota di Michel Martin: Il Maestro Awa non blandiva gli allievi, e diceva la verità senza mezzi termini.]

In effetti il Maestro Awa era una persona assai amichevole, si prodigava per i suoi allievi, e sui punti importanti diveniva particolarmente serio; dimenticava di avere davanti a lui un allievo straniero, e, rimproverandolo spesso, gridava con voce possente: “Non ancora!”. In certi giorni in cui era particolarmente severo diceva molto semplicemente: “Oggi non va affatto bene. È meglio smettere”, e non permetteva più al signor Herrigel di tirare. Ora, Herrigel non perdeva mai la pazienza e non si mostrava affatto seccato. Non rispondeva mai né discuteva.

Una volta accadde che un allievo del signor Herrigel venne al dojo: il maestro fece una lezione e fece una dimostrazione dell’esercizio. Dopo che l’allievo tirò tre o quattro frecce, il maestro lo colpì improvvisamente al volto. Lo studente impallidì e provò ancora un tiro; questa volta il maestro gridò: “Buono!”. E allora il maestro e l’allievo terminarono gli esercizi in un’atmosfera gioviale e particolarmente gioiosa.

Il signor Herrigel aveva osservato la scena con grande attenzione, e allora gli chiesi: “Esiste in Europa qualcosa di simile?”, ed egli rispose: “Attualmente non esiste più nulla di simile, ma capisco molto bene questo genere di rapporti tra maestro ed allievo”.

Awa sensei nel suo dojo di Sendai

"Ogni tiro va eseguito con tutta la propria vita...". Awa Kenzo sensei nel suo dojo di Sendai. Foto scattata nel 1932 o nel 1933.

Se talvolta il maestro diceva: “Oggi non va affatto bene, è meglio smettere”, aspettava sempre con calma che il signor Herrigel mettesse a posto il suo materiale, e quindi diceva, con atteggiamento amichevole e paziente: “Il tiro con l’arco non è affatto una tecnica, e si pone al di là della logica. Durante il tiro, l’io deve unirsi all’universo. Ogni tiro va eseguito con tutta la propria vita. Ogni arciere deve arrivare al punto in cui tutta la propria vita dipende da un tiro. Ecco perché ogni tiro è un tiro all’ultimo sangue. Per attingere ciò che vi è di più alto, bisogna donare ciò che si ha di più profondo”. E terminava dicendo, con tono più grave, che tirare correttamente è la vera vita dello Zen.

In questo modo il maestro proseguiva il suo insegnamento. Ad ogni esercizio tornava sul principio in base al quale l’arte del tiro con l’arco non è una tecnica, ma uno strumento per raggiungere l’illuminazione. Spesso utilizzava nel suo insegnamento degli epigrammi che traeva spontaneamente dallo Zen. E quando s’infervorava, si metteva improvvisamente a disegnare con il gesso sulla lavagna appesa alla parete del dojo, per cercare di spiegare determinate cose al signor Herrigel. Una volta tracciò la sagoma di un arciere inscritta in un grande cerchio. “Questo arciere, signor Herrigel, deve estendere il suo Tanden fino a raggiungere il cerchio del Muga, il suo non-io, e diventare uno con l’universo”. Tuttavia spesso accadeva che il Maestro si contraddicesse. In quei casi rimanevo muto, non traducendo nulla di ciò che egli aveva detto.

Tale comportamento era sufficiente ad attirare l’attenzione del signor Herrigel, che, molto incuriosito, mi chiedeva: “Cos’ha detto il Maestro?”. Ciò mi imbarazzava alquanto.

Sentendomi in colpa, rispondevo: “Nulla di particolare. Egli solamente insiste sul principio che un tiro è la vita intera, e che tirare cento volte è un’azione santa. Si è semplicemente ripetuto”. A volte provavo a trarmi dall’imbarazzo con risposte di questo tipo. A mio avviso, nel tentativo di trovare un modo per rendere comprensibile lo spirito del tiro con l’arco il maestro in quei momenti finiva per peggiorare la situazione; nella sua ardente volontà di esprimere la sua vita interiore utilizzava diversi pensieri Zen, e senza rendersene conto entrava in conflitto con le sue stesse parole. Spero così che la mia politica del silenzio sia scusata dal maestro come dall’allievo.

La pratica presso il Maestro Awa consisteva il più delle volte nel tirare ai rotoli di paglia; ogni volta che il signor Herrigel faceva dei progressi, però, il maestro gli permetteva di accostarsi al bersaglio vero. All’inizio della sua pratica, il signor Herrigel era affascinato ed impaziente di tirare a tale bersaglio. Il Maestro tuttavia gli diceva: “Per il momento lasciamo perdere il bersaglio”. Spesso il signor Herrigel gli chiedeva: “Perché, con l’abilità che ho acquisito, non posso tirare al bersaglio?”. Allora il maestro rispondeva: “È necessario esercitarsi prima di tirare al bersaglio. Senza una lunga preparazione non si può passare dal rotolo al bersaglio”.

Quando il signor Herrigel era autorizzato a tirare al bersaglio, il Maestro Awa diceva sempre: “Deve essere prudente. Non deve avere lo scopo di prendere il bersaglio. Non deve pensare al bersaglio quando rilascia la freccia”. Non tralasciava mai di dare questa raccomandazione prima che l’allievo si presentasse dinanzi al bersaglio. E spesso aggiungeva: “Colpire il bersaglio cento volte è banale. Ma tirare bene cento volte, è un’azione sacra. Ciò vuol dire che quando, tirando cento volte, si riesce a farlo nello spirito del tiro con l’arco, si tira come Confucio”. Una concezione del genere era del tutto incomprensibile per il signor Herrigel. Per lui, l’arco era uno strumento per colpire il bersaglio. Il bersaglio è un oggetto. Quando si tira, bisogna pensare che si vuole raggiungere tale obiettivo. Nel tiro bisogna sempre avere un’intenzione determinata. Quando si dice che esiste un tiro senza intenzione, un colpo che sin dall’inizio non punta al bersaglio, ciò non può che provenire da un malinteso. Il signor Herrigel a tale proposito mi disse: “Il modo di pensare dei Giapponesi è all’esatto opposto di quello degli Europei. Per gli Europei tutto ciò è incomprensibile. Per accettare il pensiero dei Giapponesi, è necessario rivedere completamente la propria concezione”. E si chiedeva se tale differenza fondamentale non rientrasse nella notevole facoltà d’intuizione dei Giapponesi.

Sant'Uberto e il cervo sacro

"... L’istante in cui Sant’Uberto vede il cervo sacro è analogo al momento in cui l’arciere comprende lo spirito della sua arte...".

Fu probabilmente a partire da quel momento che il signor Herrigel rinunciò al suo precedente modo di pensare per dedicarsi con crescente intensità allo spirito del tiro con l’arco. Fino a quel momento aveva considerato tutto secondo il punto di vista europeo. Ora si applicava a vedere le cose dal punto di vista giapponese. Almeno fu questa la mia impressione. E a partire da quel momento il maestro utilizzò sempre più spesso l’espressione “grandioso” quando il signor Herrigel si trovava dinanzi al rotolo di paglia o al bersaglio. Sempre a partire dal quel momento il signor Herrigel diceva sempre più di rado “incomprensibile”, o “incredibile”. Poco a poco la sua comprensione diventava più profonda, e cominciava a trovare delle analogie con la tradizione mistica del Medioevo europeo. Me ne parlava spesso, e riconosceva che in realtà l’arco e il bersaglio non erano altro che strumenti per l’illuminazione. “L’arco non esiste per tirare al bersaglio. Quando si tira al bersaglio, è come se si tirasse al proprio io”. Fece spedire dalla Germania, per il maestro, una famosa immagine di Sant’Uberto, come dono di Natale. L’immagine raffigurava un cavaliere, accompagnato da un cane da caccia, che nel fondo di una foresta si trovava faccia a faccia con un cervo; tra le corna di quest’ultimo vi era una croce sormontata da un’aureola d’oro. Il cavaliere era inginocchiato dinanzi al cervo.

Uberto era un signore della prima metà dell’VIII secolo che, come gli altri feudatari della sua epoca, conduceva un’esistenza oziosa ed amava la caccia. Quando incontrò il cervo sacro egli ebbe una visione di Dio, rinunciò alla sua vita dissoluta ed entrò in monastero. Fu più tardi canonizzato con il nome di Sant’Uberto. L’immagine in questione rappresenta il momento cruciale della sua vita. Penso che il signor Herrigel abbia offerto questa immagine al maestro ritenendo che l’istante in cui Sant’Uberto vede il cervo sacro fosse analogo al momento in cui l’arciere comprende lo spirito della sua arte. Il maestro parve assai felice del dono, e non tardò a far appendere l’immagine alla parete del dojo 1.

Man mano che il tiro del signor Herrigel migliorava, il suo interesse si approfondiva e il suo ardore aumentava. Partendo per le vacanze portò con sé l’arco e il rotolo di paglia, mentre l’amicizia tra il maestro e l’allievo andava sempre più affermandosi.

Il maestro percepiva che il signor Herrigel, benché straniero, grazie alla conformazione del suo pensiero filosofico aveva compreso lo spirito del tiro con l’arco; ciò lo impressionava profondamente e lo induceva a mostrargli la più grande stima. D’altro canto, il signor Herrigel onorava il signor Awa come un maestro incomparabile ed unico, e restò sempre un suo allievo fedele. Accadde persino che un’estate in cui il signor Herrigel trascorreva le vacanze sulla spiagga di Takayama, il maestro si prendesse il disturbo di raggiungerlo, e dinanzi al rotolo di paglia parlassero del tiro con l’arco nel loro rispettivo tedesco e giapponese stentato.

Il signor Herrigel lasciò Sendai nell’agosto del 1929. A quell’epoca il suo tiro era già impressionante. La sua attitudine dinanzi al bersaglio era matura, e sfiorava la perfezione come dinanzi al rotolo di paglia. Il Maestro Awa era assai felice, poiché aveva avuto un’occasione per espandere lo spirito del tiro con l’arco al di là dei mari, fino in Europa; e il signor Herrigel promise di non abbandonare la sua pratica una volta che fosse tornato in patria. Anche lui voleva far conoscere in Europa la profondità dello spirito giapponese di cui aveva acquisito la conoscenza grazie al tiro con l’arco e al grande maestro di quest’arte. Il signor Awa conferì a Herrigel un diploma di 5° dan, che secondo lui corrispondeva al suo grado di padronanza dell’arte del tiro. Espresse questo giudizio senza alcuna restrizione e senza che – pur trattandosi di uno straniero – avesse modificato in alcun modo i consueti criteri. Il 5° dan esprimeva esattamente la capacità del signor Herrigel.

Il signor Awa ed il signor Herrigel furono assai rattristati dall’avvicinarsi della loro separazione, e il maestro fece dono all’allievo della sua spada preferita, in ricordo del legame che li univa. Gli offrì questa spada preziosa in segno di gioia nel vedere uno straniero che aveva compreso così bene il vero spirito della cavalleria giapponese.

Dopo il suo rientro in Germania il signor Herrigel mi ha scritto spesso; mi ha sempre incaricato di ricordarlo presso il signor Awa, e talvolta ha aggiunto una parola che mi pregava di tradurre e riferire al signor Awa. Mi ha confidato che continuava la sua pratica senza interruzione. Acquistando sempre più fiducia in se stesso, riusciva a tirare meglio che in Giappone. Amerebbe sapere se il signor Awa avrà occasione di recarsi in Germania. In questi ultimi anni mi ha scritto che aveva timore di essersi fidato troppo del suo giudizio, e di essersi quindi ingannato sulla sua abilità, essendosi allenato troppo a lungo senza lo sguardo critico del maestro, dato che in Germania nessuno poteva correggerlo come io avevo fatto in altre occasioni, e temeva di smarrirsi in un metodo di sua invenzione.

Questa traduzione del signor Shibata è il racconto di una conferenza che il signor Herrigel ha tenuto dinanzi alla società tedesco-giapponese, rispondendo alla richiesta della sezione di Berlino. Me ne ha fatto pervenire una copia tramite il signor Hiroo Furuuchi, e ha sollecitato un parere del signor Awa. Inoltre, desiderava conoscere la mia opinione. Il signor Awa mi ha fatto riferire che a suo giudizio non v’era nulla da criticare in quel testo, ed era compiaciuto di sapere che il tiro con l’arco giapponese era presentato all’estero in modo così notevole.

Eugen Herrigel. Ritratto di un grande filosofo

Eugen Herrigel. Ritratto di un grande filosofo.

Ho subito ritrasmesso questo messaggio al signor Herrigel, il quale mi ha risposto che si era tranquillizzato e aveva ripreso fiducia nel suo proprio giudizio. Ero stato d’avviso che il 5° dan, al momento della sua partenza dal Giappone, corrispondeva esattamente alla sua abilità, ma non avevo immaginato che egli avesse penetrato così profondamente lo spirito del tiro con l’arco. L’ho capito attraverso il testo della sua conferenza. Anche per i giapponesi non è affatto facile, dopo una pratica così breve, afferrare con tanta esattezza l’autentico spirito del tiro con l’arco. E gli è stato necessaria l’attitudine di un filosofo allenato alla logica per esporre con tanta chiarezza la relazione della sua pratica. Su questo punto gli ho fornito alcune osservazioni. Forse non era rimasto soddisfatto della mia lettera, poiché mi ha scritto per conoscere meglio le critiche che formulavo. Sorpreso dalla sua serietà e dal suo ardore gli ho risposto che la mia lettera precedente conteneva tutto ciò che pensavo su questo argomento.

Poco tempo dopo, mi scrisse nuovamente dicendo che la sua conferenza era stata destinata a un largo pubblico tedesco al quale voleva far intravedere cosa fosse il tiro con l’arco, ma che si proponeva presto o tardi di scrivere un’opera voluminosa per gli iniziati. A questo scopo aveva preso contatto con un editore. In questo libro parlava in dettaglio del suo venerato maestro e descriveva tutta la pena che si era dato il signor Komachiya nel fare da interprete tra loro.

Nella conferenza del signor Herrigel si trova un episodio nel quale il maestro accende nell’oscurità un bastoncino d’incenso e tira due frecce, di cui la seconda colpisce l’estremità della prima; a tale proposito egli riporta alcune dichiarazioni che fece il signor Awa – quella sera non ero presente, e di conseguenza non avevo potuto fare da interprete. Ciò mi fa supporre che il signor Herrigel, con le sue scarse conoscenze della lingua giapponese e in un’autentica comunicazione da mente a mente ha potuto comprendere il maestro; e sono sorpreso del fatto che senza un interprete si possano comprendere delle cose così difficilmente esprimibili a parole. Senza dubbio fu in questa conferenza che egli fece per la prima volta allusione a questa esperienza, poiché non me ne aveva mai parlato prima. Più tardi, quando lessi il testo della conferenza, parlai di questo episodio al maestro Awa.

Egli mi rispose con un sorriso assai fine: “Sì, accadono davvero dei miracoli. Il caso imprevedibile produce cose del genere”. Sono rimasto assai impressionato dalla calma con la quale trovava scontato il fatto che non me ne avessero mai parlato, né lui né il signor Herrigel, fino al momento in cui lessi la traduzione del signor Shibata.

Quando il Maestro Awa morì, il 1° marzo 1939, a 59 anni, informai subito il signor Herrigel. Questi mi rispose che la notizia lo colpiva profondamente, e che con tutto il cuore rimpiangeva questa perdita per il Giappone; mi pregò di esprimere le sue profonde condoglianze all’entourage del defunto.

In occasione della traduzione di Shibata quindi annotato i pensieri che mi sono tornati in mente e che espongo in questo resoconto. Ho dimenticato parecchie cose, poiché ormai sono passati molti anni. Ho conservato solo ciò che mi ha lasciato una profonda impressione, e lo trasmetto così come si è presentato alla mia memoria, senza un ordine ben definito.

Sendai, dicembre 1940

Sozo Komachiya

N.B. Questo scritto è apparso in appendice alla traduzione giapponese della conferenza del signor Herrigel dinanzi alla Società tedesco-giapponese di Berlino nel 1936, con il titolo: “L’arte cavalleresca del tiro con l’arco”.

Note:

  1. E’ il caso di rilevare come la vicenda della conversione di Sant’Uberto ricalchi singolarmente quella di S. Eustachio, di molti secoli più antica. Si tratta in questo caso di Placido Ottavio, magister equitum della XII legio sotto l’Imperatore Traiano (vedi Athanasius Kircher, Historia Eustachio-Mariana, Roma, 1665, p. 5), il quale, andando a caccia presso l’attuale Mentorella, o Vulturella, ebbe la visione del cervo sacro che tra le corna aveva una croce d’oro. Dopo tale esperienza Placido prese il battesimo con il nome di Eustachio. Il fatto che il nostro Placido Procesi tenesse in particolare considerazione la figura di Placido/Eustachio e che tale archetipo, pur con il diverso nome di Uberto, occorra in questo lignaggio di Kyudo a cui egli fu specialmente collegato, rappresenta uno straordinario caso di “risonanza” di un influsso spirituale, che in quanto tale è indipendente dai limiti dello spazio e del tempo e non si lascia spiegare da nessuna indagine storica o filologica (Nota dell’Accademia Procesi).